Merc. Hacker, non adrenalina

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Di solito questo tipo di racconti cominciano con “Mi chiamo Franco Rossi, e ho una storia da raccontare…”. Io, in questa sede, come mi chiamo non lo posso dire, e non sono neanche sicuro di avere una storia da raccontare. Parto quindi già con il piede sbagliato… Prima di proseguire, vorrei avvertire tutti quelli che stanno leggendo che sono una persona abituata a scrivere (soprattutto racconti). Per questo motivo, lo stile potrà sembrare abbastanza “teatrale”, tale da fare apparire inverosimile quello che scrivo. Invece, per una volta, scrivo una storia vera, quella che ho vissuto. Ognuno sarà libero di crederci, o di considerarla un altro racconto, uno dei tanti.

Il mio nickname è Merc. Viene dal nome che usavo quando andavo in IRC (e prima di disintossicarmene…), ed è una solenne troncatura del nome “Mercury”. Mercury è infatti proprio il nome (o meglio il cognome) del mio cantante preferito (e, a dire il vero, l’unico che ho ascoltato per due anni o giù di lì…). Perché troncarlo? No, non sono afflitto anch’io dal problema di tutti gli informatici, di spezzare ogni parola fino a farla diventare una sigla. È solo che esiste un robottino finlandese, nella rete “Efnet”, che si chiama proprio “Mercury”. Per capire che era un robottino ci ho messo un paio d’ore, ma alla fine mi sono rassegnato: il nickname “Mercury” non lo avrei mai, mai avuto… (provate voi, a parlare per un paio d’ore a un robottino).

Rivedere la mia storia, tutta intera, è veramente strano. Forse perché mentre vivevo tutti i fatti che sto per raccontare, non me ne rendevo veramente conto. Tutto succedeva “con il contagocce”, un giorno dopo l’altro. Scriverla qui, ora, rende questa storia anche più affascinante, quasi un’esperienza “entusiasmante”. È un po’ come se adesso chi leggesse bevesse “tutto d’un fiato” le tante gocce di storia che ho assaggiato in questi anni. La verità – purtroppo? – è che quando questo tipo di cose vengono vissute in prima persona, è tutto molto diverso: non c’è “adrenalina continua” come in un libro o in un film. Non c’è un inizio, un “durante” e un finale. Ci sono solo “fatti che succedono”. E purtroppo, nella storia di un hacker, tali fatti spesso non sono né entusiasmanti né fantastici: succedono e basta. L’adrenalina, le sensazioni, sono soffocate – quasi in “sottofondo”.

La mia passione per l’informatica è nata quando avevo circa nove anni (forse qualcosa di più, non ricordo) con il telefilm I ragazzi del computer (in inglese, The Whizz Kids). Era per me un telefilm semplicemente fantastico. Tuttora, non credo che sia stato mai realizzato qualcosa di più bello (a parte War Games, forse). Era, per chi non lo avesse visto, la storia di un gruppo di cinque ragazzi appassionati al mondo dell’informatica. In particolare Richie, il protagonista, era la persona che avrei voluto essere: una specie di mito, di quelli che ti possono cambiare l’esistenza. Quei ragazzi vivevano sempre avventure fantastiche, e alla fine il computer diventava sempre il loro strumento fondamentale per risolvere i problemi più difficili. Per non far scappare un criminale con un aereo, per esempio, loro si connettevano al computer principale della torre di controllo, mostrando sul terminale dell’aereo una serie di motivazioni che ne impedivano la partenza (è rimasto un VIP a terra, non c’è abbastanza carburante, non c’è una pista disponibile, eccetera.). Credo che la mia passione per l’informatica sia nata lì, così, da un telefilm. In quello, c’era tutto: modem, terminali, apparecchi elettronici autocostruiti che svolgevano lavori di ogni tipo… la camera da letto del protagonista era un concentrato di sogni, ottenuto mescolando tutti gli ingredienti più entusiasmanti che il mondo della tecnologia “casalinga” potesse offrire. Ebbene si, la mia passione per l’informatica è nata da un telefilm americano.

Io, da parte mia, avevo soltanto un piccolo Commodore 64, che a mio parere era buono soltanto per giocare (e questo dimostra quanto poco capissi di informatica…). Il punto è che insieme al Commodore 64, avevano “appioppato” a mia madre un’enciclopedia chiamata Il mio computer, che io non avevo praticamente mai sfogliato. Ebbene, a undici anni ho deciso che entro qualche mese avrei dovuto sapere a memoria tutti gli otto volumi di quella enciclopedia. Era divisa in “sezioni”: c’era la sezione per inparare il BASIC, quella per imparare la manpolazione del suono, e così via. Tutti i pomeriggi, rimanevo steso sul divano del tinello, davanti alla televisione – spenta – a leggere quell’enciclopedia. Alla fine, terminai il primo volume. Avevo seguito tutto il corso di programmazione in BASIC, ed ero fiero di essere l’unico undicenne in Italia a sapere cosa fosse un “mouse”. Cosa feci allora? Cominciai col secondo volume, naturalmente… Alla fine, conoscevo i primi tre volumi praticamente a memoria. Attenzione, dicendo “a memoria” in tendo proprio quello che ho detto: se una persona mi diceva il titolo di un capitolo, io sapevo descrivere l’occhiello, la struttura della pagina, l’argomento trattato, le figure presenti, e le prime tre/quattro righe del capitolo stesso. Gli altri volumi li avevo letti soltanto – non studiati – perché incominciavo a “perdere colpi” (non riuscivo più a seguire i discorsi che diventavano via via più complessi). Avevo alla fine delle basi di informatica che avrebbero fatto invidia a molti “appassionati” del momento (il livello di conoscenze, all’epoca, era bassissimo tra i non addetti ai lavori: i computer erano irraggiungibili, e c’era ancora la figura del sistemista in camice bianco…). Quelle basi mi hanno permesso di andare avanti come un treno per molti degli anni successivi: ogni volta che mi trovavo di fronte a un nuovo argomento, esso suonava alle mie orecchie come qualcosa di “già sentito”, ed ero avvantaggiato rispetto a tutti gli altri.

A tredici anni ho scelto di andare all’istituto tecnico industriale. Ero un ragazzino decisamente difficile: ero piuttosto chiuso, mi inventavo storie ridicole, ed ero magrissimo e più piccolo dei miei compagni, tutti quattordicenni (per “più piccolo” intendo sia fisicamente sia mentalmente). Avevo scelto la sezione “sperimentale”, perché – ci avevano detto – lì si faceva più informatica e più laboratorio. In realtà di informatica non se ne vedeva neanche l’ombra. C’era un’insegnante di matematica incompetente e incapace di insegnare, che aveva seguito (immagino con quale entusiasmo) un corso di Turbo Pascal – aveva due ore alla settimana per insegnarcelo. Ovviamente quelle due ore alla settimana diventavano “matematicamente” due ore al mese, che si riducevano in un elenco dei comandi mal conosciuti e mal spiegati. Imparai il Turbo Pascal dal testo consigliato, Lavorando in Turbo Pascal, in circa quattro giorni. Per programmare usavo un Olivetti PC1 Prodest, con due Disk Drive da 3.5″ e 512 KB di RAM. Ho usato il Turbo Pascal per i due anni successivi, e devo ammettere che tale linguaggio – per la sua pulizia formale e la sua chiarezza – mi è ancora oggi rimasto nel cuore (anche se non ho mai usato Delphi…). Praticamente cercavo di realizzare ogni tipo di programma che mi venisse in mente.

Purtroppo le idee erano poche, ma la voglia di stare davanti al computer era tanta e tale che riuscivo a rimanere per ore e ore al prompt del DOS a provare i comandi più strani. Già, la “voglia di stare davanti al computer”. Ho usato proprio l’espressione più adatta: il mio era puro desiderio di trovarmi di fronte a un monitor e a una tastiera. La programmazione, se vogliamo, era una “scusa”: di fronte al computer mi sentivo bene, rilassato. Non c’entrava la voglia di conoscenza, il desiderio di creare programmi, o chissà che altro. A me piaceva stare davanti al computer, anche senza fare nulla di sensato, o di utile. Se dovevo fare i compiti, trovavo il sistema di farli davanti al computer. Ci scrivevo temi, e riuscivo a farci addirittura i compiti di matematica. Stare con una penna in mano per me era deprimente. (E lo è tuttora: non so scrivere senza una tastiera, quello che viene fuori con un foglio di carta e una penna è praticamente illeggibile persino per me…). Fare i compiti davanti a un computer era fantastico: lo facevo senza annoiarmi, nonostante il monitor a bassissima risoluzione, nonostante la tastiera praticamente inutilizzabile, nonostante il sistema operativo pietoso.

Non c’entra molto con l’hacking, ma vorrei solo dire che se in quel periodo – in quei due anni – non avessi conosciuto M., adesso sarei probabilmente un “Nerd” brufoloso e chiuso, capace solo di stare davanti a un computer con un panino e una Coca Cola. M. mi staccava dal computer, e insieme uscivamo a fare quelle che io definivo “pazzie”. È stato l’amico che mi ha fatto capire che IO potevo essere quello divertente, quello con cui qualcuno vuole stare, vuole uscire, o parlare. Per me, queste cose non esistevano: ero sempre il coglione del gruppo, quello che faceva meglio a star zitto. Lui mi ha dato importanza, e mi ha fatto capire delle cose – dei meccanismi – fondamentali per mantenere rapporti con gli altri. Ha impedito il completo annullamento della mia vita sociale, facendo emergere il lato di me che vuole stare con gli altri, e divertirsi. È stato anche il mio migliore amico. Quando vedo ragazzi di sedici o vent’anni che stanno tutto il giorno chiusi dentro uno stanzino a giocare con dei videogiochi o a programmare, penso: “Ecco, lui non ha avuto un Marco che gli aprisse gli occhi”. Grazie, M.

Alla fine di quei due anni, mi consideravo un genio dell’informatica. Vivevo ancora su quel background che mi ero fatto da undicenne (!), e non mi rendevo conto del fatto di essere solo un quindicenne con deboli basi di programmazione e qualche conoscenza di base del mondo dei computer (conoscenza peraltro inutilizzabile…).

Dopo il biennio, scelsi come specializzazione “informatica”. Lì si iniziava a vedere qualcosa di più pratico, rispetto al bienno. Ma ormai la mia fiducia nei confronti della scuola era pressoché finita: mi rendevo conto di quanto fossi vorace di sapere, e che le conoscenze che forniva la scuola erano poche, pochissime. Nel triennio, ho avuto 9 come voto finale a informatica. In pratica, in quei tre anni ho studiato soltanto italiano e storia. Le altre erano materie che non esistevano (a parte matematica, alla quale sono stato bocciato per tutti gli anni delle superiori).

La mia prima esperienza con la telematica la ebbi poco prima del terzo anno di superiori, con le BBS amatoriali. Era, quello, un mondo che mi piaceva moltissimo: la possibilità di connettersi e di leggere informazioni mandate da un computer dall’altra parte della cornetta era quasi inverosimile. Inoltre, mi riportava ai ricordi il mitico telefilm che aveva acceso la mia passione verso i computer: avevo anch’io un modem, e potenzialmente potevo anch’io fare le cose che per anni avevo sognato. In realtà, facevo ben poco: mi connettevo ad alcune BBS locali e leggevo le poche informazioni che mi venivano fornite. Non sapevo ancora nulla di FidoNet, né di ITAPAC o altro. Il fatto che le BBS potessero solo essere locali (vista l’impossibilità di fare chiamate in teleselezione…) mi faceva stare un po’ “stretto”, ma mi andava bene lo stesso…

C’erano due BBS nella mia città a quel tempo. Una di queste, era praticamente monopolizzata da me: passavo ore a fare chat con il sysop (il gestore), a parlare di nulla. La prima “uscita” dall’ambito cittadino l’ho fatta con ITAPAC. Sembra un po’ ridicolo che un hacker abbia cominciato con ITAPAC… pagando le bollette. Eppure, le bollette le pagavo, eccome. Usavo ITAPAC per connettermi a McLink, e da lì facevo chat tutte le sere con un gruppo di persone. Era una specie di IRC, con canali, messaggi privati, eccetera. Questi sistemi ora sono pressoché morti, in quanto la presenza di Internet ha permesso a tutti di utilizzare server dall’altra parte del mondo pagando una chiamata urbana. Ma lì era diverso: la possibilità di comunicare con persone di Roma o Milano era incredibile. Ho fatto lì le prime amicizie on-line. In particolare, c’era un ragazzo che aveva problemi con le gambe, di cui non ricordo il nome, con il quale parlavo spessissimo. È stata la mia prima “amicizia telematica” abbastanza profonda, e devo dire che fu molto bello. (Non sapevo quello che mi aspettava, riguardo al Chat…). Inoltre, scrivevo già racconti.

Quando MCmicrocomputer era ancora una rivista seria (McLink era la loro BBS), esisteva anche un’area racconti, nel quale ogni mese c’era un “concorso”: chiunque voleva “gareggiava” con il proprio racconto, e una giuria decideva quale fosse il migliore. Era un fantastico stimolo a scrivere. Ero agli inizi, avevo quindici anni, e l’idea di poter competere con altri in giro per l’Italia nella scrittura di racconti mi faceva impazzire. Era un ambiente semplicemente stupendo, credo che difficilmente potrebbe ricrearsi un’atmosfera così fortemente densa di sensazioni e di voglia di comunicare. Attenzione: pagavo cifre folli. Riuscivo a spendere 7000 lire per ogni ora di collegamento, per qualcosa che non andava a più di 1200 Baud (visto che la Telecom non era pronta a investire qualche lira per far rispondere a ITAPAC con modem più veloci). Se avessi saputo prima quello che so adesso, non avrei mai pagato una lira. D’altra parte, pagare per essere connesso mi ha dato la “coscienza” di non usare NUI rubate. Probabilmente è per questo che negli anni successivi non ho mai – mai – usato un servizio a spese di un altro utente. Credo di essere uno dei pochi hacker a poter dire questa frase (o almeno a poterla dire sinceramente). Mi sono spesso collegato a spese di grandi aziende, che praticavano giornalmente il furto a poveri utenti (vedi Telecom), ma mai a spese di poveri ignari che vivono crisi familiari a causa di un addebito pazzesco sulla carta di credito. Inoltre, se avessi avuto le conoscenze che mi sarei fatto di lì a poco, avrei probabilmente perso tutte le sensazioni derivanti dalla “comunità virtuale”, buttandomi sull’hacking, che è una pratica fortemente deleteria e alienante (a questo punto mi tirerò addosso tutta la comunità di hacker in Italia, che sa chi sono… beh, pazienza). Per due anni, il buio.

Dopo una bolletta di 700.000 lire, che non mi potevo permettere, e dopo una… crisi familiare, ho staccato il modem e l’ho messo da parte. Per due anni non avrei sentito parlare di reti, di modem, eccetera. Non so esattamente per quale motivo questo sia successo. Quello che so, e che i concorsi su McLink diventarono un ricordo abbastanza lontano, e il fascino delle telecomunicazioni sparì, così. Non ho molto da dire, su quel periodo: avevo appena cominciato il triennio in Informatica, e volevo soltanto primeggiare in quelle che erano le “mie” materie. No, c’è qualcosa che devo dire, a proposito di quei due anni. C’era un ufficio, vicino casa mia, nel quale utilizzavano Aix per sviluppare software gestionale. Il DOS cominciava a starmi stretto, e – grazie al fatto che le persone di quell’ufficio erano amici di un mio professore di informatica – avevo libero accesso (come root!) a un computer Risc con l’Aix di Ibm.

Vidi quindi Unix per la prima volta a diciassette anni. Fu lì che conobbi uno dei due titolari di quell’azienda, W., che considero ancora oggi una delle persone più in gamba che conosca (informaticamente e personalmente parlando). Lui lavorava – programmava in Cobol… – e io stavo lì, vicino a lui, a provare i comandi di Aix con i manuali affianco. Ogni tanto lo bloccavo, e lui rimaneva per cinque minuti o un quarto d’ora a spiegarmi. Mi spiegò lui il significato del file /etc/passwd, e cosa fosse un “gruppo di utenti” (in /etc/group). Non si mostrò mai, mai spazientito nonostante lo interrompessi. Quando non poteva, diceva: “Ora non posso”. Non sfruttai abbastanza a fondo quella possibilità. Andai lì solo quattro o cinque volte, abbastanza per capire quanto cretino fosse il DOS, ma non abbastanza per conoscere Unix a fondo.

Credo che W. sia un’altra persona che dovrei ringraziare. Finché non arrivò A. A. era il mio migliore amico (lo è tuttora). Stavamo benissimo insieme, io lo adoravo perché era buffo ma allo stesso tempo serio. Con lui mi divertivo sempre moltissimo. Lo avevo conosciuto poco prima del diploma, ed è stato sempre – a parte qualche sussulto – uno su cui contare. Insomma, dicevo, un giorno A. arrivò:

“Merc, metti un point?”.

Da lì, è ripartito tutto. Con la differenza che non si sarebbe più fermato.

Tramite una BBS chiamata “Space Base”, sono diventato Point FidoNet. Ricordo ancora il numero che mi era stato assegnato, anche se qui ora non posso scriverlo. Come molti già sapranno, FidoNet era (o meglio è) una rete amatoriale. Una specie di Internet, però con la differenza che era destinata esclusivamente allo scambio dei messaggi, e si basava sulle normali linee telefoniche. Esistevano in pratica diverse aree di discussione, nelle quali tutti potevano intervenire (tutti quelli che avevano un “point”, intendo). Ognuno mandava il proprio messaggio alla propria BBS locale. Poi, di notte, tramite un sistema gerarchico, i computer si connettevano l’un l’altro, e il messaggio andava “in rete” (ovvero tutti gli altri point lo potevano leggere). Non era immediato, ovviamente: tutto il processo poteva richiedere anche due o tre giorni. Ma si comunicava. Nell’area RIDERE.ITA mi sono fatto probabilmente le migliori risate della mia vita. In POLITICA.ITA (si chiamava così?) ho imparato cosa fosse la destra e la sinistra, e così via. È stata, quella, la seconda “ondata di comunicazione” che ho vissuto. Sarebbe stata, purtroppo, l’ultima a quei livelli. Di nuovo, il mezzo informatico era solo un mezzo, e non un fine. Si utilizzava il computer per scrivere e il modem per mandare. Non c’erano fronzoli, pagine Web, Applet Java, e stupidaggini varie. Si parlava. Si poteva fare solo quello. Punto. Se non avessi preso il Point, oggi sarei una persona completamente diversa. Sicuramente non starei qui a scrivere questa storia, e non avrei combinato quello che ho combinato.

Sono soddisfatto di quello che è successo, e se tornassi indietro ripeterei tutte le esperienze informatiche che ho fatto. Tramite il mondo di FidoNet ho conosciuto XXXX. L’approccio con lui è stato più o meno questo:

Ciao, tu sei XXXX?

Si, e tu?

Io sono Merc.

Ah.

Posso farti una domanda?

Si, certo.

Ma è vero che prima ti ********** (domanda molto personale).

Eh… si, perché?

Prima o poi mi descrivi tutto, ok?

(a questo punto il ghiaccio era rotto, anzi sfracellato come se fosse caduto dalla punta di un grattacielo…)

Eheheheh sì, ok… tu vuoi essere point?

Sì… ora ho un po’ di casini…

Che succede?

Ma, ho una storia con ******* (risposta molto personale), e credo che se continuo così impazzisco (a questo punto il ghiaccio era acqua bollente).

L’amicizia è nata più o meno in quel momento, e non è più scomparsa.

Mi ero appena diplomato, e non sapevo ancora cosa fare nella vita. Quando lui tornava dal lavoro, c’era sempre qualcosa da fare per le associazioni, i point, eccetera. Ora ci vediamo di meno, lui lavora, io lavoro, ma l’atmosfera, la storia, è rimasta. E questa non è una cosa normale, perché le persone dimenticano. Io e lui, no.

Era circa Ottobre, quando – abbonato ad Agorà – entrai in Internet per la prima volta. Ecco una telefonata con XXXX:

non ti seguo…

(XXXX) ok, vai in Internet…

ma poi?

(XXXX) Poi che?

Piu che ne so… che cos’è Telnet? Che cos’è ftp?

(XXXX) In che senso?

Come in che senso? Come funzionano, quali sono i concetti… che cosa sono?

Questa è tra le battute storiche, che io e XXXX ricordiamo ancora quando lui vuole prendermi un po’ in giro… Il punto è che “Internet” tramite la BBS altro non era che una serie di client testuali messi a disposizione dalla BBS stessa. Quindi, se si decideva di fare telnet, veniva lanciato il client “telnet” standard di Unix, che appariva con qualcosa tipo “TELNET> “. Ora, quel prompt lo conosco fin troppo bene. Ma all’epoca lasciava tutti un po’ sconvolti…

Feci – e fallii – tre mesi di università (la città non la dico, mentre la facoltà la lascio indovinare…). L’ho odiata con tutto il mio cuore. Lì i ragazzi studiano informatica, ma in realtà perdono tempo imparando una valanga di cose perfettamente inutili. Scappai.

Era Gennaio, non sapevo che fare, e chiesi quindi a W. di essere assunto, altrimenti la mia famiglia mi avrebbe ucciso. Lui disse di sì, anche se probabilmente non aveva bisogno di me. Mi conosceva, eravamo amici (o almeno, lui era per me un amico), e semplicemente mi ha aiutato. W. è uno di quelli che quando va in macchina tiene sempre gli spiccioli, non per pagare l’autostrada ma per darli a chi gli chiede l’elemosina ai semafori. Questa volta, metaforicamente, all’incrocio c’ero io. Ed era come se mi avesse dato un milione. Così, lavorai su Aix ed entrai in contatto con il mondo dei mainframe e con il mondo Unix.

Già allora, la voglia di capirne qualcosa di più sulla sicurezza aveva cominciato a prendermi. Vedevo Aix, e non riuscivo a non rimanere esterrefatto dalla sua complessità. E pensavo: deve, deve avere buchi…

Cominciai a studiarlo, approfondii la mia conoscenza su Unix e soprattutto compresi la sua filosofia per la programmazione. Mi innamorai di Unix, anche se Aix mi sembrava un po’… un carrozzone immane (è quello che tuttora penso di questo sistema operativo…).

XXXX era l’unico di noi che “navigava” con Mosaic. A tale scopo, faceva una chiamata interurbana con un provider non so più di dove. Io, dopo la bolletta pazzesca avuta qualche anno prima, mi astenevo. Per lui, la voglia di “essere in Internet” divenne troppa.

A Marzo di quell’anno (dopo due mesi che lavoravo come impiegato), però, successe qualcosa che “scosse” telematicamente l’Italia. Cominciò il progetto Video On Line, destinato a essere distrutto dalla Telecom Italia, ma partito con un fervore unico.

Tutto ebbe inizio con un “numero verde”. Avevo avuto, tramite un mio amico, un numero telefonico al quale – dicevano – avrebbe dovuto rispondere un modem, per la connessione a Internet. Diedi quel numero a XXXX (io non avevo neanche il software per gestire una connessione in PPP, e usavo ancora Windows…), che ogni giorno – ma che dico, ogni ora – lo provava. Nulla: non funzionava.

Un giorno, mi chiamò XXXX:

(XXXX) Indovina cosa sto facendo?

Ti masturbi?

(XXXX) No.

Ti droghi?

(XXXX) No.

Fai sesso?

(XXXX) No. Dai, indovina… indovina che sto facendo?

Sei connesso con il numero verde.

(XXXX) Come fai a saperlo…? Mitico… Merc., sto facendo Mosaic senza spendere neanche una lira di telefono, e va velocissimo!

E da lì, scoppiò Internet in Italia.

Anch’io installai Mosaic. Connettersi era una tragedia: il PPP spesso non funzionava, e il programma standard (Winsock) era veramente terribile. Ma funzionava: c’era Internet. C’era tutto. In quel periodo, scoprii IRC (o meglio, mi ci ammalai…).

Per me, quella di IRC divenne una vera e propria mania. IRC è quel protocollo che permette a un gruppo di persone di “entrare in canali” e chiacchierare di un determinato argomento (o, come spesso succede, di nessun argomento…). Quando Internet venne fuori, c’era un gruppo formato da me, XXXX e Mxxxxx. Una sera, ci incontrammo tutti a casa mia. Internet era lì. Non resistemmo. Ci collegammo. Entrammo in IRC. Ero io alla tastiera, e XXXX e Mxxxxx alla mia sinistra e alla mia destra. Dopo un quarto d’ora, XXXX esordì: Scusa, ma non è meglio che io e Mxxxxx andiamo a casa così possiamo stare tutti connessi? E se ne andarono!

Non so se Internet, in questo caso, sia stata una scusa per aggregarci o per disgregarci… Per tutti – per me particolarmente – diventò, lo ripeto, una vera e propria malattia. Se la sera non potevo connettermi e fare chat mi sentivo solo, e stavo male. Non riuscivo a immaginare la mia vita senza IRC. Ne avevo bisogno, anche un po’ al giorno (“solo” due ore), mi serviva. Prendevo tutte le scuse possibili: “Eh, ma ora che c’è il numero verde, lo sfrutto!”, oppure “Sì, ho solo un appuntamento con Mix su canale #Jordan, poi esco subito”… e così via. E se non ci entravo, se non riuscivo a connettermi, diventavo matto, non riuscivo a fare nient’altro che provare e riprovare. Era una vera e propria “crisi di astinenza”, che aveva effetti veramente forti sulla personalità. Non mi disintossicai finché non ne ebbi realmente bisogno, qualche mese dopo (non oso pensare a quante ore abbia passato in IRC in quel periodo…).

In quel periodo, litigai in modo molto serio con A. L’amicizia aveva cominciato da un po’ a traballare, la “magia” era venuta a mancare ed erano nati quei mille “rancori” che riempiono la testa con il tempo, man mano che si frequentano le persone. Ogni cosa che dicessi secondo lui non aveva senso. Ogni idea era idiota. Ogni cosa, una cazzata. Prima fra tutte: Internet. Per me la Rete era una specie di religione, e lui – quando ne parlavamo – tagliava corto con un “Non serve a niente”. Quando cercavo di fargli vedere qualcosa in proposito, se ne andava. Era completamente esaurita, forse, la dose di rispetto che tutti attribuiamo alle persone quando le conosciamo. Quella che piano piano svanisce, col tempo, con l’abitudine a stare insieme, per l’insopportazione verso le stupidagini.

A quel punto – doveva essere Marzo o Aprile – arrivò per me la svolta. Mi dissero che, con un sistema operativo chiamato Linux, la connessione a Internet sarebbe stata migliore e più veloce. Stanco dell’ottusità di Windows, formattai il disco rigido e installai il nuovo sistema operativo. Per me era più facile: lavoravo giornalmente con Unix, sviluppandoci del software. Quindi, mi sentivo più o meno “a casa”.

Cominciai a studiarlo, rigorosamente senza nessun manuale cartaceo. All’epoca non esisteva moltissima documentazione on-line di Linux e configurare qualcosa poteva rivelarsi una vera tragedia. Mi sono connesso per la prima volta a Internet usando Linux grazie all’aiuto dello Smilzo, il miglior tecnico che abbia mai incontrato. Lui ha mostrato a tutti le capacità di Linux come server, lanciando l’”inetd” e facendo connettere me, XXXX e Mxxxxxx in FTP sul suo PC di casa. Mi ha insegnato tantissime cose, e soprattutto mi ha “spronato” a non aver paura di un sistema operativo anche se bisogna farci le cose più “complicate” (attenzione: ero programmatore di Aix, e Unix dal punto di vista sistemistico e di amministrazione lo conoscevo veramente poco…).

A un certo punto, XXXX mi disse: “C’è

(XXXX) un mio amico che sta per aprire un provider. Tu che lavori con Unix, sei capace di fare un server?”

“Si, certo!”

Mentivo. Spudoratamente.

Venti giorni dopo, toccai per la prima volta in vita mia un filo in rame sul quale era scritto “Internet”.

Era lì, nella mia città. Era mio compito configurare il server perché funzionasse, per permettere a tutti di connettersi, senza più pagare la chiamata interurbana (o di passare per ITAPAC). Attenzione: “tutti” erano tutti i miei amici, che erano stanchi di chiamare un numero verde che funzionava una volta su venti. Tutti aspettavano me. E io non sapevo da dove cominciare. Mi trovai di fronte al server da configurare. Un Pentium 100 con 64 MB di RAM: un mostro (ora non è neanche più un Entry Level…). Partii con l’installazione del sistema operativo. Con il CD IDE, non ebbi problemi di sorta. Mi domando ancora come abbia fatto a far vedere la scheda di rete a Linux, visto che è una cosa risaputamente rognosa (e soprattutto visto che non lo avevo mai fatto). Comunque, la scheda fu riconosciuta. Qualche santo probabilmente era lì ad aiutarmi. Si, ora che ci ripenso, il santo c’era proprio.

Era un anno, quello, durante il quale tutte le schede madri rilasciate dalla Intel montavano un chip chiamato “SZ1000”, che serviva al controller dei dischi rigidi. Il chip aveva un bug, ovvero un problema, che lo rendeva inutilizzabile con sistemi operativi a 32 Bit (quindi, con OS/2, Windows NT e Unix). Se si possedeva una schema madre con l’SZ1000, l’installazione si bloccava a metà, dando uno strano “divide by 0 error” (o qualcosa del genere: l’errore cambiava sempre…). Se mi fosse successo in quel momento, mentre non sapevo nulla di Linux, probabilmente quel server non lo avrei mai installato (per la cronaca, alcuni mesi dopo – da esperto di Linux – avrei perso 8 giorni a causa di questo problema).

L’angelo, però, c’era: e l’installazione riuscì, perché la scheda madre non mondava quel maledetto chip. Poi, fu il panico. Pur utilizzando lo script di connessione chiamato “netconfig”, in dotazione standard con la distribuzione “Slackware” di Linux, il server non andava in Internet. Non ne voleva sapere. Anche a prenderlo a calci nel sedere, anche a chiederglielo per favore, anche a diventare improvvisamente cattolico, i pacchetti non uscivano dalla rete interna.

Ho passato i tre giorni più brutti della mia vita lavorativa. Quelli che mi avevano commissionato il lavoro, i titolari del provider, si stavano innervosendo. Io ero un tipo vistosamente… particolare, e non incutevo sicuramente fiducia. In tutto il trambusto, c’era anche XXXX che mi dava una mano un po’ in tutto (in questo caso, soprattutto psicologicamente). Lunedi mattina, chiamammo Interbusiness (il fornitore di accessi) e gli chiesi espressamente di monitorare che fine facessero i pacchetti invece di uscire. Il controllo ci fu… e si scoprì che era colpa loro! C’era un computer, c’era la rete… mancava solo la configurazione. Quando dico che non avevo idea di come cominciare a lavorare, sono veramente sincero. Sapevo che a “rispondere” a Netscape c’era un programma, ma non avevo idea di cosa fosse una porta o come si chiamasse il programma per il Web. La notte non dormivo esattamente “tranquillo”.

Una sera, mi chiamò XXXX.

(XXXXX) Merc, è successo qualcosa… è meraviglioso… è incredibile… non lo so… hai presente War Games… no, senza la guerra… pazzesco… Ero in telnet all’università su Albatros [il nome di un computer], e facevo un po’ di IRC… usavo l’account di Pippo, che è mio amico e me lo ha prestato… A un certo punto arriva uno chiamato “C-” e mi chiede “Sei di quella città?” e io rispondo: “Si, perché”. Dopo qualche secondo… Merc, leggo “talk request from root”. Io mi sono preso un colpo. Pensavo: “Cavolo, ora devo far finta di essere Pippo… ma che ci fa qui il root proprio a quest’ora… E allora rispondo, e lui mi dice ‘Sono io, C-, quello in IRC’. Merc, era un hacker, un vero hacker, che era root su Albatros… pazzesco… è entrato in quell’Aix in trenta secondi… un hacker… un hacker vero!

La sera dopo, in IRC c’ero anch’io. In pratica, “C-” era un hacker – che ora definirei da strapazzo – che si atteggiava a grande conoscitore nell’arte di bucare i sistemi informatici. Era, per me e XXXX, una specie di mito.

Gli dicemmo che stavamo configurando il provider. Gli si “illuminano gli occhi”: voleva partecipare anche lui, voleva imparare Linux, avrebbe fatto tutto assieme a noi, da Roma. Era comunque un aiuto, e – lo ammetto – una specie di idolo. Insomma, accettammo. Ebbe la password di root, e passava praticamente tutto il giorno a configurare insieme con me il server. Ci dividemmo i compiti: lui avrebbe installato un Web Server. Io avrei pensato al PPP e al setup della multiporta. Il boss del provider seppe che c’era qualcuno sul server soltanto dopo. Glielo dissi così: “C’è un mio amico da Roma che mi sta dando una mano”. La cosa non gli dispiaqque. Certo, se avesse saputo che era un hacker quello che avevo conosciuto la sera prima, mi avrebbe cacciato a calci nel sedere senza pensarci due volte.

Ma la cosa funzionò. Ancora oggi, non mi spiego per quale motivo lo facesse. Riusciva a rimanere connesso ore e ore senza staccarsi. Era diventata, per lui, una specie di malattia: un provider gli aveva chiesto aiuto, qualcuno stava usando i suoi servizi, e questo sembrava… esaltarlo. Si comportava come se fosse fiero di quello che faceva.

Fu lui a parlarmi dei primi bug. Mi parlò dell’incredibile bug di Aix, che permetteva a chiunque di diventare root in pochi secondi su qualunque host (fu così che entrò nell’Aix che stava usando XXXX…). Mi indicò i nomi delle mailing list nelle quali si parlava di sicurezza, dandomi anche una panoramica dei “gruppi” che esistevano. Insomma, mi “iniziò” come hacker, e più passava il tempo, più mi rendevo conto di quanto fosse facile bucare un sistema. Instaurai con C- (si chiamava Christian, mi disse; n.d.r falsissimo) un rapporto di pseudo-amicizia. Era lunatico, cambiava umore spesso, e a volte era un po’ scorbutico. Ma lasciavo fare, perché lo vedevo come un aiuto prezioso e fonte inesauribile di informazioni.

Poi, col tempo, cambiò. La sua “scorbuticaggine” divenne “insofferenza nei miei confronti”. Mi diceva che ero lento, che a quanto pareva i modem non rispondevano e che se non mi muovevo il provider non avrebbe mai aperto. Si vantava del suo Web Server funzionante in soli due giorni (ricordate questo tempo: “due giorni”), e mi dimostrava una rabbia incredibile. Tutto stava degenerando, lo sentivo. C’era qualcosa che non andava, in quello che stava succedendo. Non sapevo quale fosse il suo vero nome, non avevo idea di dove fosse in realtà… non sapevo assolutamente nulla.

E più passava il tempo, e più dava segni di squilibrio. Si, squilibrio. È così che lo definirei, oggi: credo che Christian fosse un ragazzo profondamente turbato psicologicamente. Credo che volesse distruggere volutamente la fiducia che si era conquistata, perché non riusciva in realtà a sopportarla. Il server era finito: il PPP funzionava, il Web server c’era. Avevamo anche fatto un server gopher che funzionava come BBS per i clienti che volessero accedere alle informazioni usando un normale programma di emulazione terminale…

Ma ci fu un bisticcio. Poi un altro. Alla fine, nel bel mezzo di una terza litigata, incominciò a insultarmi e… bucò un provider concorrente (e nella stessa città) facendomi talk direttamente da lì, come root!

A quel punto ero veramente spaventato. Non sapevo che fare. Anche XXXX aveva capito che era ora di piantarla. Dopo la litigata, formattai tutto. Formattare un disco significa radere al suolo, ripartire da zero. Fu quello che feci io con il server. Cancellai ogni cosa.

Il problema era che in quell’installazione fatta insieme, poteva esserci una backdoor di C- in qualunque servizio del server. Quindi, non avevo scelta. Reinstallai tutto in un pomeriggio, mentre per il server Web mi resi conto che era molto più semplice di quanto non avesse detto C-: ci persi solo qualche ora. Per dovere di cronaca: ultimamente ho scaricato, compilato, installato e configurato un Web Server Apache in sei minuti e mezzo, nel mezzo di una lezione in un corso che stavo tenendo proprio a Roma…

Una volta chiuso il sistema, non tornai in IRC per un paio di settimane. Questo può sembrare “nulla” per chi legge. Ma per me fu un sacrificio enorme. Credevo di avere una folla di amici, in IRC. Se non ci entravo, stavo malissimo. Da quando lavoravo per l’installazione del server, potevo fare IRC praticamente tutto il giorno. Insomma… fu dura. Poi, piano piano, riuscii a stare relativamente bene anche senza farlo. Il server fu completato qualche giorno dopo, soprattutto grazie ai ragazzi del canale #linpeople.

Il lavoro come programmatore sotto Aix (ma non solo…) lo avevo gradualmente lasciato andare. Mi dispiacque per W., ma non riuscii a resistere. Prima decisi con lui per un part-time, poi divenne tre volte la settimana, poi mi avrebbe chiamato quando ne avrebbe avuto bisogno…

A quel punto facevo il system administrator, e avevo la passione e le conoscenze necessarie per fare hacking. Mi sentivo responsabilizzato del ruolo che avevo assunto. Per questo, studiai a fondo Linux fin nei minimi particolari. Mi appassionai letteralmente a questo sistema operativo, e – soprattutto – a tutta la comunità di appassionati che riusciva a trasportare. Esisteva un sistema operativo alternativo a Windows, disponibile completamente in codice sorgente.

Qualche mese dopo, C- sarebbe tornato all’attacco. Più precisamente, durante una manifestazione: ormai avevo una padronanza pressoché completa del sistema operativo, e avevo tappato ogni bug del mio sistema. Passai la notte del ferragosto, mentre tutti erano a festeggiare, a impazzire dietro ai log di sistema cercando il modo di pararmi dagli attacchi di C-. Attacchi che venivano da più siti, e nello stesso momento. Pensai che avesse organizzato un’”orda” di hacker perché attaccarssero il mio povero server. Ricevetti dei messaggi sul Syslog che non riuscii a decifrare, e sentivo l’hard disk del server trillare disperatamente. Provò ad attaccarmi tramite le remote shell. Cancellai tutti gli eseguibili chiamati in causa. Martoriò il mio povero sendmail (alla fine uccisi io stesso il processo, al diavolo la posta degli utenti). Eseguì dei comandi CGI. Cancellai tutti i cgi-bin non indispensabili dal server… Alla fine, non entrò. Il server era ridotto un po’ male, l’rlogin non avrebbe mai più funzionato, l’inetd.conf era un pastrocchio, ma lui non entrò. Da allora, non lo vidi ne lo sentii mai più.

A questo punto, avrei dovuto essere contento. Avevo delle conoscenze abbastanza profonde e soprattutto “rivendibili” con pochissime difficoltà. Facevo un lavoro veramente bello e, anche se prendevo pochissimi soldi, era comunque un punto di partenza. Eppure, le cose non funzionarono. Qualcosa si incriccò, ancora oggi – sinceramente – non saperei dire cosa. Avevo anche problemi in famiglia. Da quel momento – era Settembre – cominciai a bucare molti siti. Ero depresso.

Sentivo di non avere un lavoro “vero”, e mi sentivo solo dal punto di vista delle amicizie (tranne V.).

Ebbi la splendida idea di mettere una linea dedicata fino alla mia camera da letto. Da allora, uscii pochissimo. Imparai un’altra valanga di cose, perché stavo qualcosa come sette-otto ore al giorno connesso a parlare con grossi esperti tramite mailing list e canali IRC specializzati. Ma ero solo, terribilmente solo. L’unica adrenalina che mi sentivo salire derivava da qualche azione di hacking nei confronti di provider sprovveduti. Ma la mia dose di buon senso era troppo, troppo forte.

Non ho mai fatto danni a nessuno. Ho sempre fatto una mail al root, spiegando i bug e i problemi. Poi, venivo a sapere che si erano rivolti alla magistratura. Rimanevo nel dubbio di aver cancellato tutti i log. Aspettavo qualche giorno. Nessun poliziotto mi entrava in casa. Mi reputavo salvo.

Per fare hacking, usavo i router del [***], che mi servivano come gateway. Una volta bucai un sito Olandese che andava a 64 Kb al secondo (non 64 Kbit, ma Kbyte: è un’altra faccenda…). Da lì, potevo fare dei mail bombing o dei flood paurosi con chiunque mi mandava in bestia in IRC. Una volta bucai un sito che all’apparenza non era nulla di importante, ma che in realtà aveva un giro di soldi pauroso. Vendeva anche servizi su Internet. Vidi i sorgenti dei loro programmi. Scovai una backdoor, e la misi in giro per la rete.

Ho parlato di IRC. Già, ricaddi anche nella trappola di IRC. Il giorno stavo nel canale #linpeople, a parlare di Linux, imparando cose tramite le mailing list. La sera entravo in canali “italiani” e parlavo con le persone. Rimanevo per ore e ore a chiacchierare, senza riuscire a staccarmi. Non ce la facevo: c’era sempre una frase alla quale rispondere, e non avevo nessuna ragione – nessuna – per dire “ciao, devo andare”. La mattina non dovevo svegliarmi, né avevo impegni lavorativi di alcun tipo. Come ho detto, ci ricaddi, stavolta in modo ancora più forte. Quando parlavo con gli altri, mi atteggiavo ad hacker, forse lo ero, forse ero solo un coglione con delle conoscenze particolari (ma non particolarmente irraggiungibili).

Se qualcuno incominciava a insultarmi, riceveva due megabit dall’Irlanda direttamente sul modem, ed era costretto a sconnettersi. Poi, mi prendevano i sensi di colpa. Mi dispiaceva, proponevo la pace, a volte accettavano.

Ma solo a scrivere queste cose mi sento male. Mi sembra che sia passata una vita, invece è solo qualche anno fa. Tutto questo durò fino a Gennaio. In quel mese, le cose peggiorarono drasticamente. Bastò una litigata – una brutta litigata – con V., l’unico amico “fisico” che avessi. Feci la promessa peggiore della mia vita: non gli avrei rivolto la parola, per un anno.

In quel momento, in cui la autostima era sotto le scarpe, mantenere una promessa a me stesso era più che fondamentale. E la mantenni.

Ora è passato più di un anno, ci incontriamo, stiamo zitti. Queste cose, poi, vanno avanti per inerzia, così. Magari io sono convinto che ora sia lui ad avercela con me, e invece non è vero e vorrebbe riparlarmi. O lui è convinto che io non gli voglia rivolgere la parola, ed evita di parlarmi. O la cosa gli ha veramente rotto le palle, e veramente ora pensa “ma vada a farsi friggere, quel coglione”. E chi lo sa. Quello che so, è che ho buttato nel cesso un amico. Il periodo veramente brutto durò da Gennaio (quando litigai) fino ad Aprile: non uscii praticamente più di casa. Avevo appena perso l’unico amico “fisico”.

Mi restava solo il PC. Dormivo la mattina fino a tardi, sentivo la tensione familiare nei confronti di un figlio “fannullone”. Mi stavo spegnendo: non scrivevo più (mentre fino a quel momento avevo sempre scritto…), né avevo alcun rapporto di amicizia. E facevo hacking per distrazione, o forse per disperazione. Quando entravo in IRC, mi comportavo apposta da lamer (lo faccio tutt’ora): non lo so perché lo facessi, ero come il ragazzino grasso e solo nel gruppo di “intelligenti” che giocava a pallone, che si divertiva a dire cavolate, e a rompere le gambe agli altri giocatori.

Ero una persona profondamente sola. Ero un hacker. L’hacker è nell’immaginario collettivo una specie di “mito”, di “supereroe” capace di fare cose mirabolanti. Nei film, si vedono le cose più ridicole. Quando li guardo, penso: ma il regista ha almeno chiesto a un consulente, o un amico, o a qualcuno, come funziona un computer? Sembra che l’unico consulente dei film che hanno parlato di hacking siano stati i figli undicenni sessualmente sconvolti dei registi (anche se War Games rappresenta l’eccezione).

Comunque, il fatto che l’hacking sembri qualcosa di incredibile, di quasi “soprannaturale”, ha portato a mitizzare la figura dell’hacker. La verità è che per bucare un sistema – diventando così un “cracker” – ci vuole veramente poco. Chi ha delle conoscenze di base di Internet e di informatica, perde un mese per impratichirsi con Unix (ora c’è anche Linux…) e due mesi per informarsi e conoscere gli exploit. I successivi tre mesi, li passa a sviluppare un minimo di intuito.

Fatti i conti, in sei mesi – neanche poi così intensi – ecco che viene fuori uno che “buca i sistemi”. Perché bucare computer è una baggianata, un gioco da bambini. Chi si atteggia ad “hacker”, può far solo sorridere chi capisce un minimo di informatica.

Voglio fare un paragone. Immaginiamo che un ragazzo entri nelle stanze più riservate della Nasa. È come se la “folla” impazzisse ammirando la bravura di quel ragazzo, che è riuscito a forzare le porte di sicurezza, invece di dire “ma che scemo”. Ed è come se la magistratura, poi, lo punisse come “spia internazionale”, e non come “ragazzo che non ha resistito alla tentazione di provare la sicurezza di quelle porte”. Anche se poi alla fine non ha fatto nulla. Ma forse… Ma forse no. Forse il mondo ha bisogno di miti. E il mito di un ragazzino che preme magicamente i tasti di un elaboratore è sempre una scusa in più per sognare…

Ad Aprile tutto finì, perché mi fu offerto un buon lavoro in un’altra città. Un lavoro bello, che avrei svolto con un orario di ufficio standard (che a quel punto, in tutta la mia sregolatezza, era diventato una specie di sogno). Sarei stato fuori, e questo mi avrebbe “salvato” dalla situazione assurda che si era creata in famiglia. Quel lavoro mi avrebbe dato una valanga di conoscenze, e popolarità. Accettai.

Il 3 Aprile ero a P., salvando la vita a un prodotto che era oramai in condizioni disperate (non posso essere più preciso). Lavoravo a trenta chilometri da casa, passavo da un’ora a due ore al giorno in macchina o su autobus. Vivevo con C., una ragazza che già conoscevo e che incontrai proprio a P. dopo qualche settimana che ero lì. Io, che non avevo mai avuto una ragazza “stabile”, dovevo affrontare anche una convivenza non priva di difficoltà. (C. ancora oggi è la mia ragazza…) Insomma… mi catapultai da una vita tipica di “ragazzino” a quella di “uomo che lavora”. Ma capii moltissime cose, maturai, mi “ricaricai” (anche se alla fine ero esausto). Fu un anno durissimo. Per la precisione furono undici mesi, alla fine dei quali avevo una ragazza fantastica – con la quale avevo vissuto per dieci mesi – e tutta la voglia del mondo di emergere, di tornare “alla riscossa”. Alla fine, andai via mettendomi d’accordo che avrei fatto “da remoto” il lavoro che stavo facendo lì. Avrei preso molti meno soldi, ma mi andava bene lo stesso.

Non riesco a fare a meno di parlare, a questo punto, della notte del giorno prima che partissi per P. A. mi chiamò, infatti, tre giorni prima della partenza. Tra di noi era successo qualcosa di veramente strano. Probabilmente era passata una quantità di tempo abbastanza lunga da lasciarmi dimenticare quella maledetta frase che mi disse. Insomma, mi chiamò al telefono. Gli dissi che sarei partito per P. Lunedì. Rimase a bocca asciutta. La telefonata finì con: “Ci vediamo dopodomani”. Dopodomani, arrivò. Era la vigilia della mia partenza. Esattamente, la notte prima. Fu come se nulla fosse accaduto. I rancori, le inimicizie, le arrabbiature per motivi ridicoli… erano dimenticate. Intendo: dimenticate. Non era una “tregua”, era tutto sparito. Era una “nuova partenza”, come se avesse detto: “Abbiamo fatto, detto e pensato molte cazzate. Adesso basta e torniamo amici, ok?”. Tutto questo la maledetta notte prima che partissi.

Io che stavo partendo perché non c’era più nulla che mi tenesse attaccato alla mia città natale. Io che stavo partendo perché oramai ero depresso, deperito e senza alcuno scopo… Ebbi davanti a me un motivo per restare, per piangere il fatto di andare via. Ci divertimmo come mai. Eravamo come due amici sull’orlo di un precipizio. E uno dei due era destinato a cadere, ad andare giù. E avrebbe incominciato a volare, forse. O si sarebbe sfracellato, chissà. Fu una notte fantastica. Una delle più belle, con lui. Sapevamo che sarebbe stata l’ultima, per molto tempo. Sapevamo che forse non avremmo avuto più la possibilità di frequentarci. Sapevamo che quelle ultime ore, dopo mesi e mesi senza rivolgerci la parola, erano da gustare tutte, senza pensare al fatto che sarei partito. Cosa successe ad A. dopo quella notte? A., che mi aveva sempre detto “Internet è una stupidagine”, o “non serve a nulla”, cominciò a lavorare per il provider che io all’epoca avevo installato. Non immediatamente: avevo infatti “lasciato il testimone” a qualcun’altro. Ma quell’”altro” – che non ho mai nominato in questo racconto perché non merita la minima considerazione – non si era dimostrato all’altezza, e A. gli era subentrato verso Dicembre. A. studiò Linux in circa due giorni. Dopo pochissimo, lo conosceva benissimo: gli mancava solo l’esperienza, ma per le persone come lui questo non rappresenta mai un problema. Voglio far notare però che per lui era diverso: A. non aveva mai vissuto la rete come qualcosa di “magico”, come un posto in cui trovare altre persone, far parte di comunità incredibilmente affollate grazie a mailing list, newsgroup, o pagine Web. Per A. Internet era semplicemente una rete, punto e basta. Non poteva interessarlo l’hacking, perché non avrebbe mai avuto tempo da dedicarvici. IRC, poi, neanche a parlarne: per lui era solo un gruppo di cretini che parlava. Questo era A., almeno all’esterno. Probabilmente non saprò mai cosa davvero gli passasse per la testa. Non saprò mai se in realtà mi invidiasse, o mi compatisse, fosse indifferente, o cosa. Ma, alla fine, cosa importa? Alla fine di quegli undici mesi… qualche promessa la mantenni, qualcun’altra no. Ne approfittai per vivere in modo più “rilassato”, in un ambiente che conoscevo meglio e vicino ai miei amici (in particolar modo, A.).

Ora dovrei smettere di parlare al passato remoto, perché sono arrivato praticamente al presente (è Giugno ‘97 mentre scrivo…). Sono quattro mesi che vivo nella “mia città”. La mia ragazza ha imparato l’informatica: ora sa tutto di Unix, e programma in Perl su commissione. In questo momento, tra parentesi, sta installando un provider. Mi ha chiesto di insegnarle qualcosa sulla sicurezza, e sull’hacking. Ho fatto un esame di coscienza. Poi sono stato sincero: “C., io non so più niente, di hacking. Non ‘buco’ un sito praticamente da Aprile dell’anno scorso, prima della famosa partenza per P., e mi sento francamente benissimo. IRC adesso mi annoia, non riesco a resisterci per più di 10 minuti prima di cadere nel sonno più cupo. Inoltre, sono rimasto “indietro” sulle ultime tecniche si trapanazione di un sistema informatico”.

Un anno fa, lo sniffing di password era “la svolta”. Oggi, già si è passato allo spoofing, e Dio solo sa cosa ci sarà quando il Kerberos sarà completamente diffuso.

Di hacker, mi è rimasta la mentalità: se tramite un sistema informatico posso ottenere qualcosa senza pagare, e – soprattutto – se nessuno pagherà al mio posto, semplicemente evito di pagare. Sempre che le mie limitatissime capacità – quali sono oggi – me lo permettano. A Settembre, vivrò un’avventura incredibile (sempre con la mia ragazza). Ho ancora quella carica che avevo quando ho lasciato P., e ho moltissima voglia di imparare e di continuare a fare quello che faccio. Ora, a scrivere queste cose, mi viene la pelle d’oca.

Il punto è che fare hacking, come ho detto, ha un suo fascino nei racconti, nei film. Ma nella vita normale, è tutta un’altra cosa. È raro trovare ragazzi hacker che siano anche ragazzi in gamba. Questa frase suona un po’ forte, mi tirerà addosso tutta l’ira dei moltissimi hacker – e ce ne sono – che rappresentano le eccezioni. Maprofondamente. C’è sempre una nota stonata, la consapevolezza che in realtà si è soli, davanti a un computer e con un modem che accende e spegne delle spie luminose.

La realtà è che nonostante ci si trovi in un canale in IRC con trenta persone che parlano (o meglio scrivono) e scherzano, in realtà si è nella propria camera, a uccidere gli occhi. Nonostante ci si proietti con la tastiera in un server di chissà quale provider, o si sniffino chissà quali password, in realtà si è sempre lì, nella stessa cameretta, con le stesse cose, con le gambe indolenzite, affamati. Attaccati alla rete, ma a nient’altro. Allora, nasce – spontaneamente – una domanda: ripeterei le esperienze che ho vissuto, adesso, alla luce di tutto questo? La risposta, dopo tutto quello che ho detto, è forse contraddittoria: non lo so. È come se fossi stato un drogato, un drogato di Internet. La Rete mi ha fatto vivere molte sensazioni particolari, molte… avventure – chiamiamole così – a volte mi sono anche molto divertito (l’hacking di gruppo era l’unica cosa davvero divertente che facessi nel periodo “nero”). Le cattive sensazioni hanno prevalso praticamente sempre, questo sì. Lo “stare male” era la regola, ogni altra sensazione era “l’eccezione”. Ma sono stato come un drogato, che alla fine “ne è uscito”.

Ne sono uscito “cambiato”, ho corso i miei rischi, ho vissuto esperienze che altri possono solo guardare in televisione – distorte. Ma alla fine tutto questo farà parte per sempre della mia personalità, del mio modo di vedere il mondo