Altro che pirati!

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di G. Spataro – Jekyl , aprile 1999

Come ogni territorio che si rispetti, anche il territorio virtuale di Internet ha un immaginario collettivo di buoni e cattivi. I buoni sono gli utenti medi, il novantanove per cento circa dei due milioni di navigatori italiani. Fanno surf da un sito all’altro, poco importa se sono siti a contenuto razzista o pedofilo, la responsabilità è della Rete.

Nella migliore delle ipotesi, di chi costruisce quei siti. Poco importa quando si scopre che, proprio tra gli utenti “medi”, il novantanove per cento che abbiamo già catalogato come buoni, si nascondono i creatori dei siti infami. La rete ha decretato chi sono i suoi cattivi: gli hacker. Come ogni territorio che si rispetti, anche nel territorio virtuale si fa confusione, e i ruoli spesso hanno contorni meno definiti di quelli che sembrano, a volte sono capovolti. O dovrebbereo esserlo.

Questo accade anche per il fenomeno dell’hacking. Nato all’inizio degli anni sessanta, l’ hacking evolve parallelamente al mondo dell’informatica, spesso ne è fonte di innovazione. Assume dimensioni planetarie con il boom di internet, nei primi anni novanta. Che in Italia non esistano dei veri hacker, che competano per livello di destrezza elettronica con gli statunitensi, è un fatto acquisito.

A dirlo è propio chi smanetta (traduzione di hacker: smanettone) sui computer dai primi anni ottanta all’ombra del tricolore. Esistono molti lamers, termine spregiativo, con cui vengono identificati coloro che si spacciano per hacker, ma che in realtà sono dei millantatori. Spesso, quando si legge di hacker arrestati o condannati, si è di fronte al tipico impiegato annoiato che nulla ha a che vedere con il mondo a cui dichiara di appartenere.

Ma il fenomeno ormai và di moda, e sbattere l’hacker in quarta pagina rende il giornale (o la rivista, o fate voi…) al passo con i tempi. Perché manchino veri hacker “tricolori” è presto detto: la rivoluzione informatica arriva in Italia molto, ma molto più tardi che in altre nazioni. “Spaghetti Hacker” parte dal 1982, con l’arrivo dei primissimi videogame (chi si ricorda le barrette di Pong ?), terreno di coltura per coloro che troveranno, con l’arrivo dei primi home computers (VIC 20, Coomodore vari, ZX Spectrum), un’adeguata risorsa alle loro capacità di “parlare” con le macchine.

L’avvento, su scala mondiale, delle reti telematiche a commutazione di pacchetto (la famiglia di reti a cui appartiene Internet) ha fatto il resto. In modo sempre più incisivo, i nostri smanettoni entrano in contatto con i “maestri” a stelle e striscie. E recuperano un po’ del tanto terreno perduto. Ripercorrendo questo arco di tempo, “Spaghetti Hacker” non descrive solamente il lato storico – folcloristico del fenomeno, ma descrive, in modo didattico, alcune tecniche. Tecniche tra le più comuni, di quelle usate per penetrare illegalmente sistemi informatici.

Attenzione: chiunque cerchi all’interno del libro, cosa fare esattamente per “bucare” (termine gergale che sta per “penetrare illegalmente”) un sito, resterà deluso. A meno che non sia un vero hacker, in grado di elaborare le informazioni presenti… Si diceva non solo folclore e tecnica. Oltre ad una interessante parte sull’aspetto giuridico del fenomeno, l’operazione più utile di “Spaghetti Hacker”, è la narrazione del vissuto degli smanettoni fatta propio dagli smanettoni stessi. Ogni capitolo del libro, si chiude con testimonianze personali di smanettoni che sognavano di essere hacker, o magari già lo erano senza saperlo.

Questo lato umano, di chi non riesce a concepire la propia esistenza senza byte da scoprire e improbabili periferiche da configurare, ridiscute i confini dei buoni e dei cattivi. Mostra il vero sentimento dell’hacker, o di chi aspira ad esserlo, riassumibile con un’affermazione attribuita a The Mentor, elite hacker statunitense : “My crime is that of curiosity”. Questo il motore che spinge, la curiosità. La negazione che ci possano essere delle informazioni inaccessibili, per chiunque.

Per attuare questo è ovviamente necessaria una buona dose di tecnicismo, che il movimento hacker estetizza. Hacker è chi fà la cosa meno usuale, non chi usa facili scorciatoie, o peggio, programmi in cui basta cliccare e guardare. L’hacker rompe la passività che, più o meno, ognuno di noi sperimenta di fronte al calcolatore. Spesso, leggendo le storie del libro, troverete una conversione degli smanettoni. Da simpatici pirati, ad amministratori dei primi internet provider italiani. Organizzatori di corsi per l’alfabetizzione informatica, consulenti di società informatiche per la sicurezza.

Quando la Rete sbarcò in Italia erano ben pochi quello che avevano le idee chiare, e non solo dal punto di vista tecnico. I nostri smanettoni, prima dileggiati e maltrattati, vennero corteggiati e sedotti. La loro presenza, che si creda o no, fu molto importante per la nascita sia delle prime reti telematiche che dei primi internet provider italiani. Questo fenomeno di riconversione non è tipicamente peninsulare.

Quelli che, generazioni informatiche fa, erano hackers in nazioni informaticamente più avanzate (USA, Finlandia, Germania, Olanda), spesso hanno effettuato lo stesso percorso. Gli hackers statunitensi di prima e seconda generazione, non di rado erano studenti che finirono per diventare ricercatori universitari. Di alcuni di loro si trovano ancora dei byte in rete. Alla fine del libro la domanda sorge spontanea.

Chi è, dunque, il buono e chi il cattivo?