Forse sono un hacker (o potrei diventarlo)


Ogni tanto mi viene voglia di diventare un hacker. Non ne conosco, se non per sentito dire, ma confesso che mi affascinano un po’. Perché la loro storia e le loro imprese, anche se sembrano bizzarre, e spesso lo sono, fanno parte di quell’evoluzione della cultura umana che è molto più di una semplice esercitazione tecnologica. Sono come quei mutanti, quelle necessarie anomalie biologiche, che arricchiscono l’ecosistema.

Non ho paura degli hacker. Se avessi questo genere di fobie, non uscirei mai di casa. Perché è enormemente più probabile fare “brutti incontri”, anche in un quartiere tranquillo come quello in cui abito, o trovarsi in un negozio o in un ristorante proprio quando qualcuno decide di rapinarlo, che subire il benché minimo danno da parte di qualche allegro bucaniere della telematica. Anche nella remotissima ipotesi che il mio computer subisse una “intrusione”, o fosse contagiato da un virus non curabile, non subirei danni gravi. Cerco sempre di avere un solido backup – non per difendermi da improbabili attacchi, ma per proteggermi dai molto più probabili pasticci di hardware e software o dalle piccole catastrofi che può produrre un mio banale errore.

Devo confessare che non riesco a prendere sul serio i timori delle grandi organizzazioni che si dicono “attaccate” (o temono di esserlo). Se hanno difese inadeguate, il problema è loro. Prima ancora di pensare a qualsiasi sofisticata tecnologia, farebbero bene a non trascurare difese banali e ordinarie prudenze. Mettere soldi o segreti su una macchina collegata in rete (e incustodita) 24 ore su 24, o lasciare accessibile una struttura tecnologica importante senza averne una di scorta, sarebbe come lasciare una cassaforte aperta in mezzo alla strada o attraversare un deserto in automobile senza lubrificanti e pezzi di ricambio.

Il motivo per cui mi interessano gli hacker non è la loro presunta pericolosità. Le esagerazioni di chi si diverte a fare scandalo (o ha qualche sistema di sicurezza da vendere) non sono mai riuscite a convincermi. Ciò che mi interessa è la loro cultura; bizzarra fin che si vuole, talvolta intenzionalmente nociva, ma affascinante. Il problema non solo tecnico, ma soprattutto culturale, spesso fa un salto di qualità grazie a “maniaci estremisti” che si dedicano a qualcosa con una passione ossessiva e così facendo aprono porte impreviste all’innovazione.

Il motivo per cui penso che potrei diventare un hacker non è il divertimento tecnico. Come a molti, anche a me piace, ogni tanto, pasticciare con qualche meccanismo. Da bambino smontavo tutto quello su cui riuscivo a mentre le mani (per fortuna trovavo quasi sempre un modo per rimontarlo; ma se non funzionava più diventava un po’ difficile spiegare ai “grandi” la mia discolaggine). Non sono cambiato; ma se nel caso del computer la mia voglia di “smanettare” si spegne presto. Già sono molte le ore che passo con quella macchina per leggere, scrivere eccetera; e sono già un po’ troppo frequenti le situazioni in cui la stupidità di qualche software mi costringe a perdere tempo per risolvere pasticci. Se avessi il tempo (che purtroppo non ho) per darmi al “bricolage” preferirei montare un tavolo o uno scaffale, visto che non so più dove mettere libri o carte.

Ho cercato, per tutta la vita, di essere un hacker culturale. Smontare l’informazione e la conoscenza per cercare di capire che cosa c’è dentro. E poi rimontarla in modo diverso da com’era o sembrava, trovando le giunzioni fra cose apparentemente eterogenee. Non è facile, ma quando ci si riesce è affascinante.

Ma c’è anche un altro motivo. La rete è una delle poche risorse (forse l’unica) di cui disponiamo per dialogare in vera libertà e bucare la snervante omogeneità dell’informazione diffusa; come dice Kevin Kelly, individuare un oggetto in rapido movimento che vola basso, invisibile ai radar dei grandi mezzi di informazione.

Con un’infinità di pretesti, compresi gli hacker, “poteri” di ogni sorta (politici, economici, giuridici, amministrativi, informativi) stanno cercando di ingabbiare la rete, per riportarla nell’alveo conosciuto e controllato della vecchia cultura, così omogeneizzata e ripetitiva da aver perso ogni sapore. Aiutati dallo smisurato potere di quella spaventosa forza distruttiva che affligge, da sempre, la nostra specie: la stupidità.

Finora, non ci siamo riusciti, ma se la morsa si stringerà (come purtroppo è possibile) farò tutto ciò di cui sarò capace per romperla. Ma inventerò identità fasulle, mi collegherò dalla Moldavia fingendo di essere in Tanzania, o non so che altro… insomma imparerò le tecniche necessarie per “bucare” il sistema. In quel caso sarà difficile resistere alla tentazione di sfottere, e se possibile danneggiare, i perversi meccanismi del Grande Inquisitore – o di quello che Frank Zappa chiamava the Central Scrutinizer.

Giancarlo Livraghi

gian@gandalf.it